I comuni limitrofi

01-06-04

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  CENNI STORICI SUI COMUNI LIMITROFI

 

Caivano

(estratto da sito internet)

 

Epoca pre-romana

 Il territorio di Caivano, originariamente in buona parte paludoso per effetto del Clanio (antico Clanis o Clanius, attuali Regi Lagni), fu bonificato dagli Etruschi che conquistarono la zona nel VI° secolo avanti Cristo. Il nome Glanis (con la g dura) è infatti etrusco e significa fiume fangoso. Gli Etruschi soggiogarono le popolazioni preesistenti, gli Osci, e fondarono in Campania dodici città, fra cui Atella a circa 4 km ad ovest dell'attuale Caivano. Nel IV° secolo a. C. gli Etruschi furono a loro volta sconfitti dai Sanniti, popolazione bellicosa affine agli Osci. Del periodo osco-sannita rimangono numerose tracce nel territorio campano ed anche in quello caivanese. Oltre 5000 tombe dell'epoca si calcola siano state ritrovate nella pianura campana e molte anche nel territorio caivanese. Ad esempio, in contrada Padula (sul lato destro della provinciale per Acerra, prima del ponte sui Regi Lagni), nei pressi dell'ex-cimitero colerico, furono ritrovate, nel 1928, 31 tombe osco-sannite. Si ipotizza che la zona fra via Don Minzoni e via Matteotti, che è leggermente rialzata rispetto alle vie circostanti, sia stata sede di un villaggio osco dipendente da Atella. In vari cortili del rione sono stati infatti ritrovati dei vasi di creta rossa (dolii) risalenti all'epoca sannitica.

 Epoca romana

 Gli Atellani furono dapprima alleati dei Romani. Poi, dopo la sconfitta dei Romani a Canne, si allearono insieme a Capua con Annibale. Quando, dopo anni di ulteriori lotte, Annibale nel 211 a. C. si ritirò verso la Lucania, molti Atellani per paura dei Romani lo seguirono e successivamente fondarono una nuova Atella (che ancora oggi esiste nei pressi dell'attuale Melfi). I Romani uccisero o resero schiavi la maggior parte degli Atellani che non fuggirono. Inoltre presero per sé e centuriarono la parte occidentale del territorio di Atella: ai Nocerini, loro alleati e che avevano avuto grandi danni da Annibale, assegnarono la parte orientale del territorio di Atella, vale a dire anche il territorio che sarebbe stato di Caivano. Circa due secoli dopo Augusto mandò un nuovo gruppo di coloni romani ad Atella e furono loro assegnate altre terre nel futuro territorio di Caivano.

Il nome di Caivano trae forse origine da un praedium Calvianum, vale a dire proprietà della gens (famiglia) Calvia, cui fu assegnata in proprietà il villaggio osco preesistente, il cui nome ci è del tutto ignoto. Nel documento più antico in cui si menziona Caivano (citato dal Pratilli, che dice di aver consultato documenti di epoca longobarda risalenti all'VIII° secolo) si parla di campu Calevanu.

Di epoca romana fu rinvenuto nel 1923, presso la Chiesa di S. Barbara, una ricca tomba nobiliare sotterranea del I° secolo d. C. con splendide pitture murali, raffiguranti fra l'altro delle mura di case di un villaggio, forse l'antico praedium Calvianum. La tomba fu smontata e ricostruita nel cortile del Museo Nazionale di Napoli dove è ancor oggi possibile visitarla.

 Medio Evo

 Nel 568 i Longobardi iniziano l'invasione dell'Italia. Due anni dopo esiste già il ducato longobardo di Benevento. Da allora e per quattro secoli i Longobardi tentarono, senza mai riuscirvi, di conquistare Napoli. Venendo da Benevento la postazione più avanzata del ducato di Benevento in direzione di Napoli era il villaggio fortificato di S. Arcangelo. Questo centro, attualmente disabitato e ridotto a pochi ruderi, fu fondato dai Longobardi subito dopo il loro irrompere nella pianura campana e fu dedicato a S. Michele Arcangelo che era da loro molto venerato. S. Arcangelo dominava le terre ed i villaggi fino a Licignano verso Napoli e ad Atella in direzione ovest. Caivano (e forse gli attuali Pascarola e Casolla Valenzano ed anche Cardito e Crispano, praedium Crispianum) erano villaggi sottoposti al dominio di S. Arcangelo.

Quando i Normanni ebbero dal duca di Napoli la contea di Aversa, S. Arcangelo era la fortificazione più importante della contea. Ma, allorché i Normanni conquistarono sia il ducato di Benevento sia la stessa Napoli, S. Arcangelo perse la sua importanza strategica e si avviò verso la decadenza. Nel 1463 a S. Arcangelo vivevano ancora 38 famiglie (fuochi). Nel 1676 gli abitanti erano ridotti a 15 e pochi anni dopo non vi abitava più nessuno. La statua lignea di S. Arcangelo fu portata nella Chiesa di S. Pietro e lì rimase gelosamente custodita per molti anni. Nel 1957 il Canonico Angelo Massaro volle riaprire al culto la Cappella nell'antica e disabitata sede di S. Arcangelo e ivi riportò l'antica statua. Purtroppo i ladri la trafugarono e un altro pezzo dell'antica S. Arcangelo scomparve.

 Epoca Moderna

 Mentre S. Arcangelo decadeva la popolazione negli altri centri del territorio di Caivano andava aumentando. Nel 1532 Caivano aveva 132 famiglie, nel 1545 i fuochi erano diventati 246 e nel 1561 salivano a 420. Successivamente la peste riduceva le famiglie a 368 nel 1595. Lo stesso numero di famiglie si registrava nel 1648, mentre nel 1660 le famiglie salivano a 385. Per calcolare approssimativamente il numero di abitanti bisogna moltiplicare tali numeri di fuochi per 5. Nel 1772 secondo Lanna Caivano aveva oltre 6000 abitanti. Nel 1882 gli abitanti erano 11697, nel 1921 erano diventati 13511 e nel 1967 26211. Attualmente sono circa 38000.

Pascarola nel 1463 aveva 38 fuochi, nel 1648 le famiglie erano 108. Nel 1669 per la peste si riducevano a 96. Nel 1804 Pascarola aveva 500 abitanti, che diventano 800 nel 1901. Attualmente la popolazione è di circa 2500 abitanti.

Casolla Valenzano (proprietà della gens Valentia; esiste un comune presso Bari, Valenzano, con analoga origine etimologica del nome) aveva 235 abitanti nel 1797 e circa 100 nel 1903. Oggi gli abitanti sono circa 250.

 Il Castello

 In origine forse esisteva un posto di guardia fortificato longobardo, laddove è l'attuale torrione. Con la decadenza di S. Arcangelo, gli Angioini ampliarono la fortificazione trasformandolo in vero e proprio castello. Circa nella stessa epoca si iniziò a fortificare il villaggio di Caivano, che nei documenti dell'epoca incomincia ad essere definito non più villa ma castrum. La parte di Caivano circondata da mura è delimitata dalle attuali vie Matteotti, Corso Umberto, via Savonarola, via Sonnambula, via Imbriani. Le mura, in tufo, furono ritoccate più volte e l'ultima, forse, nel seicento. Sono visibili tre torri (due a via Savonarola e una all'angolo di via Imbriani con via Sonnambula). Altre tre torri sono inglobate in fabbricati più recenti e sono solo parzialmente visibili (una all'inizio di via Savonarola, la seconda all'angolo fra via Don Minzoni e via Longobardi, la terza all'angolo fra via Matteotti e via Mercadante).

Un importante assedio fu sostenuto per oltre tre mesi nel 1439 secolo dagli Angioni contro Giovanni Ventimiglia che agiva per ordine di Alfonso d'Aragona.

Il Castello fu ampiamente rimaneggiato in epoca aragonese, diventando sempre più un palazzo signorile fortificato. Sono splendide e ben conservate le feritoie da cui con armi da fuoco si poteva colpire gli assalitori.

Il Castello fu visitato nel 1632 dal viceré di Napoli, Don Emanuele Zunica e Fonseca, ed una lapide di marmo posta sul portone principale ne ricorda l'evento.

 I Feudatari

 Il più antico feudatario conosciuto è un certo Raynaldo de Cayvano dell'XI° secolo, citato in un Diploma di Roberto Principe di Capua del 1119 ed in un successivo documento del 1149 in cui si parla di Blanca, uxor quondam Raynaldi de Cayvano. Rainaldo era un nobile normanno e nel 1119 Napoli non si era ancora sottomessa ai re normanni.

In una bolla di Papa Alessandro IV del 1255 si parla di una Adelicia de Cayvano, mater Andreotti de Castello ad mare. Dal Repertorio Angioino si ricava che nel 1269 era feudatario Mustarola Antiquini, cui successe, nel 1302, Bartolomeo Siginolfo, conte di Caserta e Telese. Nel 1343, riporta D. Lanna junior, il feudo era proprietà di una certa Berdella Baraballa, vedova di Giovanni Capece.

Giustiniani (1797) ci riporta i nomi dei feudatari dall'anno 1417. In tale anno Caivano era posseduto da Marino di Santangelo. Alcuni dei feudatari successivi furono Giovanni Antonio Marzano (dal 1451), Carlo Maria Bozzuto (1452), Anna di Sans (1452), Onorato Gaetani conte di Fondi (1456), Giacomo Maria Gaetani (1489), Prospero Colonna (1504), Giacomo Gaetani (1518), Emilio della Caprona (1530), Emmanuele Malusino (1535), Costanza Pignatelli (dal 1535), Baldassarre Acquaviva (1541), Scipione Carafa (1556), Luigi Carafa (1558) principe di Stigliano, Andrea Matteo Acquaviva d'Aragona (1596), Giovanni Angelo Barile (1632), Francesco Barile (1636). Nel 1797 Caivano era feudo della famiglia Spinelli. All'inizio dell'ottocento il feudo passò ai Caracciolo e successivamente Caivano si riscattò dalla feudalità.

  Le Chiese antiche

 1) S. Maria di Campiglione. Nel 591, nel pieno dell'invasione longobarda, Papa Gregorio Magno scriveva una epistola al vescovo Importuno di Atella, inviandogli un parroco per la Ecclesiam Sanctae Mariae Campisonis. Si ritiene che questa Campisone significhi Campi Pisonis e che da tale nome derivi il nome Campiglione. La Chiesa di Campiglione è poi menzionata in un Collettario (Elenco dei contributi delle singole Parrocchie) della Diocesi di Aversa del 1324 (Ecclesia S. Mariae de Campillono). Ma allora doveva essere poco più di un'edicola. L'immagine della Madonna è di stile ed epoca bizantina, rifatta fedelmente in epoche più recenti.

2) S. Pietro. La Chiesa di S. Pietro è menzionata in una Bolla del 1186 ed inoltre nel Collettario del 1308 (Ecclesia S. Petri de villa Cayvani). Prima la Chiesa era costituita dalla sola navata trasversale e l'ingresso era rivolto verso via Mercadante. Successivamente è stata costruita la navata principale. Il Campanile è del secolo scorso e sostituì un Campanile molto più antico e di stile gotico. La Chiesa come struttura muraria e come stile è la più antica di Caivano. Nelle sue strutture murarie e architettoniche sono inseriti elementi presi da edifici preesistenti di epoca bizantina e romana.

3) S. Barbara. La Chiesa sorge a lato del sito dove fu ritrovata la tomba romana ed è noto che i Romani erigevano i sepolcri lungo le strade principali. Inoltre l'attuale via Libertini, dove sorge la Chiesa, è sulla direttrice che doveva congiungere Atella con Acerra. E' possibile che dove ora sorge la Chiesa di S. Barbara vi fosse qualche edicola o tempio romano, trasformato successivamente in Cappella e poi Chiesa Cristiana. Il primo documento storico che menziona la Chiesa di S. Barbara è un Collettario della Diocesi di Aversa del 1308, dove si parla di una Ecclesia S. Barbarae de villa Cayvani.

3) S. Maria di Casolla Valenzano. Nel Collettario del 1308 si parla di ben due Chiese dedicate alla Madonna ed esistenti in Casolla (S. Mariae de villa Casale Valentiano e S. Mariae de eadem villa). Nell'unica Chiesa di Casolla esistente vi è una statua lignea molto antica, di stile bizantino, che si fa risalire addirittura all'anno 869, in base alla data che si legge a tergo. Ma in realtà la data deve leggersi come 1869, anno in cui la statua fu restaurata ed essa è probabilmente del XIV secolo.

4) S. Giorgio di Pascarola. E' citata in un documento di re Guglielmo del 1186 (Ecclesiam Sancti Georgii) ed in un documento di Carlo d'Angiò del 1266. E' inoltre menzionata nel Collettario del 1324 (Ecclesia S. Georgii de Pascarola).

5) Dell'Annunziata. La Chiesa fu fondata prima del 1438 da Loise Rosano, si legge in una lettera del 1894 del Parroco Luigi Rosano, riportata da D. Lanna senior.                    

 

 

Frattaminore

(estrato da sito internet)

 

Dei quattro comuni sorti nelle immediate vicinanze di Atella, Frattaminore è il solo in Provincia di Napoli. Una produzione piccolo-industriale ed artigianale, soprattutto nel settore delle calzature, ha sostituito, negli ultimi due decenni, una già ridotta attività agricola. 

La denominazione di Frattarninore risale a poco più di cento anni addietro, quando nacque il comune omonimo. Essa fa eco al nome di Frattamaggiore, città vicina più nota e più grande. Il comune nasce dalla fusione dei casali di Frattapiccola e Pomigliano d'Atella. Nello stemma comunale, a significare il legame diretto con la Liburia atellana, figurano un pino mediterraneo ed un serpente, animale legato alla tradizione osca.

 Le origini di Frattapiccola risalgono alla seconda metà dei secolo XIII quando alcune famiglie che dimoravano nella odierna Fracta si spostarono nelle vicinanze dell'antico sito di Atella per costruire un nuovo villaggio che cominciò a chiamarsi Fractula e più tardi, intorno al 1282, Fractapicula, per distinguersi dall'altra Fracta che intanto aveva aggiunto l'aggettivo maior.

Nel 1500, a Frattapiccola, esisteva una chiesa intitolata a San Sebastiano sul cui luogo in seguito ne fu costruita una più grande, come ampliamento della stessa, dedicata a S. Maurizio; della vecchia chiesa di S. Sebastiano, funzionante come parrocchia fino al 1520, oggi se ne conserva ancora una parte individuabile nel locale della sagrestia. San Sebastiano doveva far parte di un antichissimo convento, quello dei SS. Sergio e Mario, sorto in aperta campagna come è riportato in un antico documento che riferisce di uno scambio di terreni intervenuto tra i fratelli Marcomanno e Giovanni da un lato e i monaci dall'altro. Nella attuale chiesa di S. Maurizio, costruita intorno al 1550 vi si conservano lapidi con iscrizioni di illustri famiglie locali dei secoli XVII e XVIII, quelle degli Iovinella e dei De Ligorio (oggi Liguori) ad una stele romana in cui si legge una dedica agli dei Mani "Dis manibus M. Amulli Epagathi lib primigeni" (Agli dei Mani di Marco Amulli Epagato, liberto della dea Fortuna Primigenia).

Frattapiccola, con il suo castello circondato dal fossato, fu feudo a partire dal XIII secolo; ne furono feudatari, tra gli altri, Pietro Marerio, Pietro da Venosa e Scipione d'Antinoro. Nel 1626 era "utile signore del Castello" Vincenzo Benevento e successivamente il figlio Francesco, all'epoca proprietari anche del complesso di Teverolaccio, nei pressi di Succivo. 

Nel 1750 il castello di Frattapiccola passò ai Carafa, conti di Policastro, sotto la cui giurisdizione erano gli abitanti di Frattapiccola, come risulta dai registri battesimali. Dell'epoca esiste, in piazza Crispi, una loro tenuta estiva, rifacimento di un probabile castello medioevale del quale è visibile ancora una torre, su via Liguori, oramai inglobata nel palazzo ducale, ed un bastione di torre nel lato nord del palazzo, sulla discesa per la grotta. Delle altre due torri una fu demolita per un ampliamento del palazzo; mentre dell'altra non se ne ha più traccia. Attualmente esiste ancora parzialmente il fossato ai due lati del palazzo, la restante parte oramai è andata perduta per la costruzione di immobili. Il palazzo ducale è edificio quadrangolare a tre piani con tipologia a corte. All'interno della corte, al piano terra, si trovavano depositi e stalle; in seguito questi locali sono stati trasformati in abitazioni e sopraelevati di piano. I vecchi balconi con archi sono stati modificati talmente da far perdere ogni riferimento architettonico. Al piano terra, oramai anch'essa destinata ad abitazione, vi è la cappella del palazzo il cui altare fu spostato nell'attuale Cappella dell'Annunziata sempre in piazza Crispi. Nel 1647, durante la rivoluzione di Masaniello, vi si rifugiarono 500 armigeri a cavallo comandati dal conte di Conversano, Giangirolamo Acquaviva, agli ordini del generale Tuttavilla e messi in fuga dai popolani di Frattamaggiore e Grumo Nevano. Pomigliano d'Atella, "Casali Pomillani" fu dato in feudo a Guglielmo Stendardo. Il castello del XVI secolo, che fu palazzo marchesale, appartenne agli Ambmsino nel secolo XVII, e successivamente al marchese Carlo Rossi di Napoli. Il palazzo, nonostante le numerose manomissioni, presenta ancora tracce del fossato e parte dell'antica facciata con porte e finestre, alcune delle quali trasformate in balconi, con cornici in piperno. 

 

 

Frattamaggiore

(estrato da sito internet)

 

La storia dei territorio frattese ha spesso sostenuto la speranza di far luce sulla civiltà sviluppatasi in epoca pre-romana nell'area a nord di Napoli con al centro Atella, l'antica città osca scomparsa nel XI secolo. L'antichissima produzione della canapa e l'artigianato delle funi sono elementi che stabiliscono una continuità storici tra Fratta e Miseno, porto romano distrutto dai saraceni nel IX secolo. E' convinzione comune infatti, che essa sia stata fondata nel 850 dai profughi scampati alla distruzione. L'agiografia del Santo Patrono Sossio martire misenate impreziosisce questa continuità, coinvolgendo anche una eredità artistica-religiosa proveniente da Cuma, insieme con la devozione di S. Giuliana.

Alcune testimonianze archeologiche di epoca Osco-Romana (tombe -archi dell'acquedotto atellano - otri ecc.) parlano di un territorio di periferia agricola preesistente all'insediamento frattese, sorto al centro tra l'arca Longobarda e quella Ducale-Bizantina della Campania, altri documenti risalenti al IX-XIV secolo (contratti agrari, pagamento delle decime, la configurazione Abbatiale della chiesa di S. Sossio) parlano dello stesso come di un territorio la cui signoria era probabilmente ecclesiastica.

Durante la dominazione Normanna (1030-1266) Fratta assume la dicitura di Major e si costituisce come casale legato a Napoli per gli affari civili e ad Aversa per quelli ecclesiastici.

Al periodo Angioino (1266-14 42) risalgono molti documenti che parlano di "cannabarj" che commerciano nella città di Napoli. Al periodo Araqonese-Spagnolo (1442-1507) risale la parte più antica della struttura urbana, con la presenza di residenze che valorizzano i palazzi con corti signorili e i "luoghi" come spazio di lavoro contadino e di produzione canapiera. Portali di piperno scolpito, affacci e mascheroni barocchi, trovano modo di esprimersi ad un buon livello architettonico

Nel 1493 Frattamaggiore diviene sede della Gran Corte della Vicaria, mentre le sue funi e le sue gomene si esportano in tutto l'impero spagnolo, accompagnando probabilmente anche l'impresa di Cristofaro Colombo.

Nel 1630 l'universitas frattese viene ceduta in feudo al Barone di Sangro, ma tre anni dopo riesce ad operare il suo "Riscatto". Nel periodo borbonico l'artigianato canapiero si concentra in una fiorente industria tessile, che avrà modo alla fine dell'800 e all'inizio del 900 di assurgere ai massimi livelli europei.

Negli ultimi 30 anni, la città ha cambiato la sua economia, ha modernizzato i suoi servizi, ha esteso la sua configurazione urbana, ed appare uno dei centri più importanti dell'hinterland napoletano. Ha dato i natali al musicista F. Durante, al poeta G. Genoino, allo storico B. Capasso.

Nel 1997, con il "Placet" dei Primate dell'Ordine di San Benedetto e con l'intervento dei monaci Sublacensi, Frattamaggiore è stata solennemente intitolata 'Città Benedettina'. Il titolo è legato alla storia inedita custodia nella Chiesa principale, delle sacre spoglie di San Sosio e Severino, le quali un tempo erano onorate nell'omonimo e antico monastero benedettino napoletano.

La città guarda ora al futuro puntando sul terziario e sul rinnovamento anche estetico di piazze, vie e luoghi pubblici. Lo scopo è di portare la città nel nuovo millennio in grado di affrontare le sfide del mercato ponendo una particolare attenzione al sociale e alla garanzie dei bisogni di base di tutti i cittadini.

Le Chiese

S. Sosio (X secolo) ha un ossatura in piperno con caratteri stilistici dei gotico napoletano. E' monumento nazionale, e conserva i corpi di S. Sosio e Severino. E' affiancata da un campanile del 1546.

S. Maria delle Grazie e Purgatorio (XV secolo) sorta in periodo Aragonese, nell'antica "piazza dell'olmo". Nel '500 fu sede della Confraternita delle anime dei purgatorio. Possiede quadri d'epoca, statue di santi e porte lignee intarsiate del 500.

S. Giovanni Battista (XV secolo), chiesa gentilizia fondata nel 1487 da Antonello De Lo Priete. Ha una tomba nel mezzo del pavimento e possiede tavole d'epoca.

SS. Annunziata e S. Antonio (XVII secolo) sorta al posto di un antico luogo devozionale, costituito da un arco dell'acquedotto atellano. Contiene statue lignee di santi e suppellettili dei '600

S.Ingenuino (XVII secolo) è chiesa gentilizia dei conti Genoino. Vi sono tombe di famiglia ed epigrafi antiche.

S. Maria Consolatrice degli Afflitti (XVII secolo) chiesa annessa al convento Agostiniano, trasformato nel secolo scorso in ospedale civile. Possiede al centro una discesa al cimitero dei monaci. Sorge nel sito con toponimo "Paritinula" risalente al IX secolo.

Immacolata Concezione (XIX secolo) Santuario che occupa il sito dell'antica cappella trecentesca dell'Angelo Custode. E' sede dell'antica Congrega dei Preti e possiede altari antichi, espressioni devozionali dell'800 e un bellissimo coro ligneo nel presbiterio.

S. Filippo Neri (XIX secolo) eretta a seguito di una scissione avvenuta tra l'antica Congrega del Carmine e quella di S. Filippo Neri. Possiede il corpo di S. Secondiano martire, e un archivio con antichi documenti notarili.

S. Rocco (XIX secolo) fondata a recupero di una antica funzione religiosa proveniente dalla cappella quattrocentesca di S. Giuliana, posta alle propaggini campagnole della città, e dalla devozione dell'omonima congrega che operava nella chiesa di S. Antonio.

SS. Redentore (1908) fondata per esigenze pastorali poste dallo sviluppo demografico. E' luogo attivissimo di catechesi giovanile.

Maria SS. di Casaluce sorge sul sito di una edicola ove era venerata una antichissima icona madonnale, con caratteri bizantini (X-XV secolo). A questa icona era rivolta la devozione dell'avito quartiere dei funari.

Maria SS. Assunta (1956) sorta a risposta dello sviluppo demografico del paese, possiede opere pregiate, e realizza una intensa attività catechistica e di servizio sociale.

Maria SS. del Carmine sostituisce una antica chiesa dei XV secolo esistente fino al 1958 nella piazza principale. E' sede di fervente attività giovanile.

Palazzi - Portali - Edicole Votive - Chiazze - Monumenti

Lungo il Corso principale e negli anfratti più nascosti del centro storico, è possibile ammirare palazzi con antichi portali di piperno datati e scolpiti in rilievo; cortili e giardini signorili con inferriate di notevole bellezza, la iconografia della religiosità popolare delle edicole votive, per l'artisticità e i colori delle sue rappresentazioni, per le sue configurazioni architettoniche che vanno dalla esaltazione gotica alla tradizione contadino-popolare.

Dall'antica chiazza o' Vicario, per il Corso Durante a Chiazza Pantano, seguendo un percorso lungo il centro storico, come Chiazza Pertuso, Novale, Crocevia, Chiazza D'Agno, Spada dei Monacelli, è un susseguirsi continuo di manifestazioni, le quali riportano l'antico alla realtà attuale.

Si incontrano tra l'altro il Palazzo della Vicaria (sec. XV), Palazzo Lupoli (sec. XVIII), Palazzo Notarile (sec. XVII), Palazzo natale di Francesco Durante (sec. XVIII), la Torre Civica (sec. XVIII), Palazzo Spena, Palazzo della Colombaia (sec. XVIII), Palazzo Giordano.     

 

 

Cardito

(estrato da sito internet)

 

Sulla base di molteplici rinvenimenti archeologici risulta ben noto che il territorio di Cardito è stato abitato fin dall’epoca osca. Gaetano Capasso, decano e maestro degli storici locali, già nel 1983, in un libro dedicato a Casoria ed ai luoghi vicini, ci enumerava i seguenti ritrovamenti di tombe osche: 1) a confine con Caivano nella zona di Cappuccini; 2) lungo la nazionale sannitica, al confine con i depositi di marmi della Ditta Raucci, in un terreno di proprietà Losco; 3) in un terreno alle spalle della lottizzazione SLAI, già villa Caracciolo; d) davanti al cimitero consortile di Cardito e Crispano; 4) nella zona di Arcopinto, circa 300 metri a sud della chiesa di S. Eufemia di Carditello. In quest’ultimo luogo furono ritrovate 13 tombe di cui una sola fu rinvenuta intatta e ricca di suppellettile risalente al III-IV secolo a.C. Il Castaldi, e con lui Capasso, ritengono sia forse opera di una fabbrica locale sussidiaria di Cuma (fig. 1).

  Ma fra l’epoca a cui risalgono questi importantissimi reperti e gli anni in cui furono scritti i primi documenti a noi pervenutici facenti menzione di Nollito (820, RNAM, ‘vico qui vollitum nominatur’; 1094, CDNA, ‘casalem qui dicitur Nolitum; o di Cardito (1114, RNAM, ‘una startiam iusta nolitum et carditum et habet a duas partes via pulvica una que descendit ad caivanum et alia at carditum’) per oltre un millennio vi è un vuoto di reperti archeologici o di documenti che potrebbe dare l’erronea impressione di un completo spopolamento.

  In particolare, nella zona non vi sono evidenze di epoca romana e il reperto più vicino risalente a tale epoca è un ipogeo, o tomba, con pareti dipinte del I secolo d. C. rinvenuto a Caivano nel 1923 a lato della Chiesa di S. Barbara ed attualmente custodito in precarie condizioni in un cortile del Museo Nazionale di Napoli.

Fu  feudo della Signora Bianca Latro; quando, nel 1302, questa viene a morire, l’investitura del casale di Cardito è concessa al cavaliere napoletano Berardo Caracciolo, cortigiano del Re. Poi lo sarà dei Loffredo.

Lo storico Giustiniani, nel 1797, scrivendo il Dizionario Geografico del Regno di Napoli, riportava l’opinione di molti che avvisano che «la sua denominazione fosse surta dall’abbondanza dei cardoni, che produce quel luogo appellato Lavinale, che gli è verso occidente».

Cardito è stato posseduto, per secoli, col titolo di Principe, dalla famiglia Loffredo. Sigismondo Loffredo acquistò Cardito l’11 giugno 1529, insieme a Mugnano ed al Castello di Monforte; il 29 luglio 1533 l’imperatore Carlo V approvò tale compra. A Sigismondo successero: Giovanbattista Loffredo, il figlio Cesare Loffredo, G. Battista II e Andrea Filippo II, Carlo Loffredo, Mario Loffredo, Sigismondo Mario Loffredo, Nicola Sigismondo Loffredo, e altri fino al principe Nicola Maria Loffredo (1781) ed a Venceslao Loffredo.

 La famiglia Loffredo fu tra le più importanti di Napoli, per gli alti servizi resi nella politica.

 

 

Orta Di Atella

(estrato da sito internet)

 

Il primo documento conosciuto che riporta il nome di Orta (Ortula) e' costituito dall'elenco dei fuochi redatto dal Giustiziere di Terra del Lavoro nel 1267 sotto Carlo I D'Angiò, re di Napoli, e' riportato sui registri angioini.

In esso sono specificati il numero delle famiglie che vi abitavano (fuochi) e le somme per le quali erano tassati.

L'origine del toponimo e il suo significato sono da ricollegare etimologicamente al termini latino Hortus (orto) da cui Hortulus, ortula (piccolo orto), secondo i Romani "terreno coltivato e buono per antonomasia", quasi in contrapposizione al "subsecivus ager" (ritaglio di terreno non coltivabile) da cui Succivo, i cui abitanti chiamano ancora oggi quelli di Orta, ortolani e non ortesi.

Nel 1278, sotto Carlo I d'Angiò , Orta fu feudo di Guglielmo de la Gonesse, ammiraglio di Francia e del regno di Napoli.

Qualche anno dopo passo' a Gabriele del Balzo.

Nel 1335 il casale risulta appartenere ad Angela Stendardo, figlia di Guglielmo, che lo porto' in dote a Giovanni Cantelmo cui andò sposa.

Dal 1519 fu feudo della famiglia Pignatelli.

Nel 1556 la corte napoletana confiscò alla famiglia Pignatelli parte del casale di Orta, loro feudo e proprietà, per aver partecipato ad una ribellione contro il re.

Nel 1625 apparteneva alla famiglia dei Tocco la quale lo venderà nel 1626 ad una Maria Caracciolo dei duci di Grifalco.

La popolazione del casale che viveva esclusivamente di lavoro agricolo producendo grano, granone, canapa e vino asprino, cominciava, intanto a prendere piu' coscienza nella necessità di ottenere maggiori diritti e libertà.

Nel 1648 Orta raggiungeva il numero di 400 abitanti e in quell'anno avviò un primo processo di liberazione dai Caracciolo.

Caduta la feudalità con leggi napoleoniche, casali e feudi si avviarono all'autogoverno e cosi fu per Orta che continuerà a chiamarsi castello di Orta.

Solo dopo l'unita d'Italia dal 1862 cambierà nome e stemma ed avrà un territorio vasto di poco piu' piccolo dell'attuale.

Nel 1928, con i comuni di Sant'Arpino e Succivo, ha fatto parte fino al 1946, del comune di Atella di Napoli, il cui municipio fu costruito nell'area urbana dell'antica Atella e dove da quarantacinque anni è abbandonato.

I secoli XVII e XVIII portarono Orta nella storia della pittura.

Nome di grossi artisti e di altri meno conosciuti, alcuni nati proprio ad Orta, emergono spesso dagli scritti e dalle tele conservate nelle chiese del paese.

Fino a venti anni fa, infatti si conservavano nella chiesa del convento due tele: una S.Agata e un S.Stefano attribuiti a Massimo Stanzione, uno dei capiscuola della pittura barocca del seicento napoletano, nato ad Orta nel 1585 e morto a Napoli durante la peste nel 1656.

E' rimasta nel convento una tela raffigurante S.Salvatore che miracola uno storpio, opera del settecento, forse del Malinconico.

Nacquero ancora ad Orta: Giuseppe Marullo, allievo di Stanzione, nel 1615, morto a Napoli nel 1685 e Paolo Domenico Finoglia, nato nel 1590 che ha lasciato opere a S.Martino in Napoli e a Conversano dove mori' nel 1645.

Nella prima metà del XVII secolo chi percorreva via S.Donato, partendo dal centro di Orta, poteva osservare un'edicola e i ruderi di un convento con annessa una chiesetta.

La nuova chiesa fu eretta a partire dal 1643 e probabilmente l'intero complesso monastico fu completato nel 1692.

La chiesa, fu il primo edificio ad essere costruito, è retta da quattro pilastri su cui poggia una finta cupola.

Sempre nel '600 la chiesa fu abbellita con stucchi ed affreschi.

Di questi affreschi restano ancora visibili due pitture su S.Donato e due su S.Salvatore.

Con Giacchino Murat il convento fu chiuso.

Una seconda chiusura il convento l'ebbe dopo il 1862 con l'unità d'Italia.

Solo nel 1898 i francescani della comunità di terrasante ne riacquistarono dal comune una parte e l'uso della chiesa.

La chiesa di San Massimo fu edificata in stile neoclassico tra gli anni 1860 e 1880, dopo la demolizione di una precedente, molto più piccola dell'attuale.

La nuova costruzione la si deve al sacerdote Nicola D'Ambosio che tenne la parrocchia dal 1856 al 1906.

La costruzione ottocentesca, in posizione elevata come la precedente, ha un importante gradinata ellittica.

Nell'interno conserva alcune pregevoli statue lignee, due tele e diverse lapidi.

La cappella congrega del Rosario fu costruita nella seconda metà del XVI secolo, certamente negli anni successivi alla battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, quando si diffuse in tutta Europa il culto della Madonna del Rosario dopo la vittoria dei cristiani contro i musulmani.

 

 

Sant’Arpino

(estrato da sito internet)

 

Sull’attuale territorio comunale di S.ARPINO gli storici fanno ricadere gran parte del sito dell’agglomerato urbano dell’antica Città di ATELLA. Questa, la cui origine e ancora avvolta nel mistero, e riportata, nelle scarne fonti bibliografiche, come centro urbano organizzato a partire dal IV secolo a.C.. Ritenuta importante Città degli OPICI (=OSCI), popolo anch’esso misterioso, fece parte di una Confederazione di centri urbani Osci che aveva Capua come capitale. Città Stato, con propria autonomia amministrativa e con proprie monete dalla scritta ADERL, Atella vivrà sempre nell’orbita politica di Capua. Di questa seguirà le sorti quando, durante la conquista romana dell’ Ager Campanus, nel 338 a.C. riceverà, come Città confederata di ROMA, il rango di MUNICIPIUM e la "CIVITAS sine suffragio". Nel 211 a.C., però, per essersi schierata con Annibale, Atella venne severamente punita e ridotta a PREFETTURA. Decimata del Senato, perse ogni suo bene, i suoi abitanti vennero forzatamente tradotti a CALATIA e le sue case vennero date agli abitanti di NUCERIA ALFATERNA, Città distrutta da Annibale per non aver tradito Roma. In seguito ritroviamo Atella come MUNICIPIUM attorno al V secolo a.C., quando CICERONE ne divenne difensore per alcuni possedimenti della Città nelle GALLIE.

Nei secoli successivi Atella venne ingrandita ed arricchita di splendidi monumenti quali il TEATRO e L’ANFITEATRO ove, alla presenza di AUGUSTO, VIRGILIO avrebbe letto le GEORGICHE. Lo stesso Augusto, secondo alcune fonti, dedusse una colonia di veterani in Atella. Atella divenne famosa in tutto il mondo antico per un genere teatrale in lingua osca: le FABULAE ATELLANAE. Di esse, rappresentanti i vari tipi contadini, sono rimaste note le maschere PAPPUS, DOSSENNUS, BUCCUS e MACCUS dal quale si fa discendere PULCINELLA. Atella, sin dai primi secoli del Cristianesimo, divenne Sede Vescovile ed in essa sarebbe transitato anche Fapostolo S. PAOLO nel suo viaggio verso Roma. Il Vescovo Atellano più famoso fu S. ELPIDIO, cacciato dall’AFRICA con altri 11 compagni durante la persecuzione dei vandali ed approdato in Atella ove, immediatamente fuori le mura di questa, avrebbe fondato una Chiesa nel 455 d.C., al momento della distruzione della Città da parte dei Vandali di GENSERICO. Attorno a questa Chiesa sarebbe sorto il villaggio di S.ARPINO. Atella continuerà ad esistere, in mezzo a guerre tra longobardi e bizantini, fino all’ XI secolo quando, con l’arrivo dei Normanni, venne da questi fondata la Città di AVERSA con le sue rovine. La sede Vescovile atellana venne assorbita dalla nuova Città.

  La tradizione ed alcuni scavi effettuati nei decenni passati hanno fatto individuare il sito occupato dal centro urbano in un dislivello altimetrico a forma di "terrazza" posto tra i paesi di ORTA, SUCCIVO, FRATTAMINORE e S.ARPINO ma ricadente al 90% nel territorio di quest’ultimo. Sulla "terrazza" esiste ancora l’ultima testimonianza archcologica emersa, il CASTELLONE, in opus reticolatum risalente, forse, al Il secolo d.C. Nuirierose necropoli, invece, sono state ritrovate un po 1 dappertutto nei territori dei paesi sopra menzionati. Un progetto di Parco Archeologico, che l’Amministrazione Comunale sta avviando con il concorso della Soprintendenza ai Beni Archeologici, potrebbe chiarire definitivamente, laddove fosse condotta una sistematica campagna di scavi, tutti i misteri che ancora avvolgono l’origine ed il sito reale occupato da Atella.

 

 

Succivo

(estrato da sito internet)

 

I primi documenti certi, riferiscono che il " Casale di Suffici " nel 1121 fu donato alla Chiesa di Aversa da Giordano, principe di Capua (i conti di Aversa divennero principi di Capua).

  Negli archivi parrocchiali una nota riporta che Papa Innocenzo II, nel 1142, affidava il casale di " Sucio " alle cure del vescovo di Aversa; sempre nell'archivio parrocchiale, in una nota datata 1759, è scritto che negli " Atti di Papa Innocenzo II   " si affermava che il nome " Sucío " deriva dal termine " Sufficio " e per caduta delle sillabe " ffi " si sarebbe avuto " Sucío ".

Recenti studi sulla divisione dell'Ager Campanus, ossia della Centuriazione, fanno risalire il nome Succivo al termine latino " Subsicivus ", " Subcisivus Agery ".

 Col termine " Subseciva " i Gromatici indicavano ritagli di terra che non raggiungevano l'estensione d una centuria; tali ritagli (cfr. A, Gentile: La Romanità dell'agro campano alla luce dei suoi nomi locali) potevano risultare o in " Mediis Centuriis " e riguardavano in genere appezzamenti di suolo di cattiva qualità e per conseguenza non assegnati o all'estremità della pertica, al limite dell'agro Centuriato e pure non assegnabili.

  L'abitato di Succivo, infatti, si trova all'estremità della pertica, proprio al limite dell'agro Centuriato, a sud del Decumano Massimo e dista dall' " Umbilicus " quanto ne dista, al nord, l'ultima traccia percebile di Cardine.   La denominazione Succivo, sarebbe collegata all'appellativo gromatico latino cosi ricostruito: Subsicivum - Su (ssi) civum, in cui l'aggeminazione di " C " si può ben spiegare per l'influsso analogico di altri composti con " sub "; cfr. Soccavo da cavus; poi Succhivo da Clivus...

  L'ipotesi linguistica è confortata dalle condizioni del terreno, in quanto è proprio nella zona di Succivo che non appaiono più tracce meridionali della limitazione romana del suolo e pertanto si è indotti a pensare, scrive sempre Gentile, che per Succivo stesso passasse il confine dell'Ager Campano.

  Nel corso dei secoli Succivo seguì le vicende della Diocesi di Aversa dalla cui Mensa Vescovile continuò a dipendere.Nel XVIII secolo vi operava ún'importante congregazione religiosa, ospitata in un palazzo a corte dell'epoca al centro del quale, ancora oggi, si ammira un pozzo a cupola e un tipico loggiato con colonne e capitelli.

  Nel 1713 i Succivesi riuscirono a difendere strenuamente il loro paese dai francesi in un memorabile scontro sul ponte di Teverolaccio; dal 1878 e fino agli inizi di questo secolo fu sede di Pretura mandamentale, dal 1974 è stata trasferita a Sant'Arpino.

  Di sicuro valore artistico è la Chiesa della Trasfigurazione che è anche la Parrocchia del paese; costruita nel XVI secolo, subì una prima trasformazione a partire dal 1670 quando, a seguito di un furioso incendio causato da un fulmine, andò distrutto il prezioso soffitto ligneo a cassettoni: a croce latina con una cupola centrale ha il maggior pregio nella semplicità e in un imponente organo che, restaurato recentemente, occupa il presbiterio.

  Sistemati in alto lungo le pareti della Chiesa, fanno bella mostra di sé 17 dipinti tondi su tela, raffiguranti Cristo, gli Apostoli e gli Evangelisti: furono commissionati da Federico Pastena, allora sindaco del paese, al pittore Tommaso De Vivo, nel 1864. Di buona fattura sono pure alcune statue lignee del '600 salvate dall'incendio della precedente Chiesa. Di notevole interesse, come quella di Orta di Atella e di Sant'Arpino, è l'architettura di alcune case a corte.Il complesso di Teverolaccio, costituito da una casatorre del XVI sec. con annessa masseria del XVIII sec., è ad un chilometro dal centro di Succivo lungo la strada per Gricignano-Aversa.

  La torre fu posta a guardia di grandi strade di comunicazione tra Aversa ed Acerra, Capua e Napoli, nella Liburia Atellana.Di architettura semplice, in origine non presentava alcuna entrata al livello del terreno; i soldati di guardia, infatti, vi accedevano con l'aiuto di funi con le quali raggiungevano i davanzali delle finestre e dove sono ancora visibili i segni. La masseria, invece, è una tipica costruzione rustica deL XVIII sec., dotata di un grande cortile, da aie e cantine; per un certo tempo appartenne alla famiglia Pignatelli. Pure del XVIII secolo è una vicina chiesetta, dedicata a S. Sossio, che conserva un pavimento in cotto maiolicato di buona fattura e un pregevole portale in marmo, probabilmente già utilizzato in una chiesa di maggiore im portanza, forse andata distrutta.

 

 

Afragola

(estrato da sito internet)

 

Recenti studi hanno portato ad una conoscenza più completa e profonda dell'antica Afragola; anzi frequenti sono i reperti archeologia che vengono alla luce, e testimoniano che nelle nostre terre, già nei tempi antichi, era fiorente la vita. Già nel 1830, il Castaldi, dinanzi alle scoperte di molti sepolcri con monete e vasi antichi, scriveva: la vicinanza di Acerra, città assai vetusta può essere la cagione che nello agro afragolese si rinvenghino tali sepolcri ed altri vecchi monumenti. Anche per il de Rosa, il rinvenimento dei reperti archeologia e la scoperta di qualche rudere o di qualche sepolcro, non sono considerati come testimonianza di vita e quindi di attività autonoma, svolta nei luoghi, ove sorgerà Afragola, ma giustificati come logica conseguenza della vicinanza di Acerra. A metà dell’800, in località Padula, presso il Salice, vennero scoperte 4 tombe greche antichissime, composte di grandi pezzi di tufo, connessi senza cemento. La numerosa suppellettile tombale raccolta veniva ad arricchire la collezioni di antichità e di arte del Real Museo Borbonico di Portici. I corredi funerari di quelle tombe, ritenute allora del periodo greco, per il de Rosa sono molto vicini ai tipi di corredi rinvenuti dallo stesso in tombe appartenenti a necropoli sannitiche, databili al IV-III sec. a.C. Per il de Rosa si tratterebbe di una serie di paghi di età sannitica, sparsi nell'agro afragolese, a mo' delle attuali masserie; piccoli nuclei rustici, intorno ai quali si svolgeva la semplice e umile vita dei pastori sanniti. Gli scavi condotti nelle zona «Cinque vie», località Vatracone, diedero una discreta necropoli, risalente ai secoli IV-III a.C.; alla «contrada Regina», e in via F. Cavallotti vennero fuori altre tombe; quelle di via Cavallotti erano da attribuirsi all'età romana. Piuttosto fortunata fu la campagna di scavi archeologia, dalla località «Masseria» alla località «Cantariello», negli anni 1960-1961; a Cantariello vennero alla luce tracce di sostrutture di villa di età romana. Tra le vere e proprie necropoli sannitiche, appartenenti agli antichi paghi, esistenti sul territorio afragolese, va annoverata, una piccola necropoli di otto tombe, delle quali una di gran valore scientifico. E' questa la tomba esposta, completamente restaurata, nella sala LXVII del Museo Nazionale di Napoli. Rinvenuta priva del suo corredo tombale, ma integra nella parte pittorica, ci consente di datarla, non solo, quanto ancora di formulare ipotesi sulla tecnica pittorica funeraria campana. Molti reperti archeologia vennero a luce durante i lavori di sterro del tratto di autostrada Napoli-Bari. Vennero a luce finanche i resti di un antico torchio per vino, qualche moneta della età di Adriano, alcuni doli (databili al II-III sec. a.C.), una cisterna di probabile età sannitica, abbandonata in età romana, un cunicolo per lo scorrimento delle acque (forse un antico acquedotto). Nel 1965, all'interno del cimitero venne a luce un'altra tomba sannitica, di fine secolo IV a.C. con un corredo di ben 12 pezzi; i «quadrati» del cimitero afragolese conservano, nel sottosuolo, molte tombe antiche: l'antica necropoli sannita afragolese, coincide con una parte dell'area del Cimitero locale.  Il nome di Afragola. Per coloro che fossero desiderosi di approfondire il tema del nome e della etimologia di Afragola, è opportuno leggere, attentamente, quanto abbiamo scritto nel capitolo IV del volume: «origine vicende e sviluppo di un casale napoletano». Mentre sdegnosamente rifiutiamo le cervellotiche tesi affacciate da taluni, con un pizzico di audace ignoranza, ricordiamo appena che il nome di Afragola troviamo noi riportato, nei documenti e nei testi antichi, nei modi più vari: Afragone, Afraore, Fragola, Afraole, Aufragole, Afragolla, Afrangola, Frabola, Afraone, Aufrangola, Fravolo, Afragola. Possiamo leggere tali nomi negli scritti di Summonte, Chiarito, Castaldi, Sacco, Capaccio, De Luca - Mastriani, Giustiniani, B. Capasso. Afragola prende il nome dalle fragole; quindi la a è derivativa, e non privativa: la terra delle fragole. Il terreno afragolese produce tuttora fragole, alla pari di quello carditese, casoriano, frattese; a Frattamaggiore era fiorente un mercatino di fragole. La fragola preferisce terreni asciutti per fruttificare, e mai paludosi o troppo freschi. E quasi a sconfessare le insulse discussioni di talune animelle locali che si illudono di far sempre da maestri, ci sia consentito riferire il parere di un insigne Maestro della Geografia della Campania, Domenico Ruocco; per il quale «le fragole e gli asparagi trovano l'area di maggiore diffusione a nordest dei Campi Flegrei, nell'alta pianura tra Afragola, Cardito e Frattamaggiore ed hanno in quest'ultima città il principale centro di smistamento e a Napoli il grande mercato di assorbimento». Gli antichi villaggi  I principali villaggi che fiorirono in territorio afragolese sono: Arcopinto, Canterello, San Salvadore delle Monache, Arcora, Salice. Arcopinto - Sul tempo in cui sorse Arcopinto non abbiamo elementi certi; una data però abbiamo noi potuto assicurare, quella del 1025, letta in documento coevo, nel quale incontriamo vari nomi di villaggi, allora già esistenti: Casa aurea (Casoria), Paternum ad sanctum Petrum (San Pietro a Patierno). Bisogna però andar senz'altro indietro, giacché si tratta di due agricoltori Cicino Russo, del fu Palumbo, che abitò in Arcopinto, e Gregorio Capuburria del fu Leone, che abitò a Casoria, ed era cognato del precedente. Arcopinto quindi era sicuramente uno dei villaggi di Afragola, situato lungo la strada Regia Napoli-Caserta, nel luogo che tuttora conserva il medesimo nome. Il nome si vorrebbe derivato o da qualche antico arco, avanzo probabilmente dell'acquedotto che di lì passava raggiungendo Atella per una diramazione secondaria, o per qualche pittura di carattere religioso, ma di un certo interesse, se finì per dare il nome al piccolo centro agricolo abitato. Questi primi coloni ebbero anche una loro chiesetta, dedicata a S. Martino, il santo guerriero che questi veterani avevano scelto a loro patrono; come, più tardi, prenderanno a santi patroni S. Giorgio, legato ad una fastosa leggenda di audace guerriero, e S. Michele, principe delle milizie celesti. Della chiesa di S. Martino troviamo ancora un cenno nella S. Visita del Card. Decio Carafa, nel 1619. Nel 1768 i ruderi delle vecchie case e della chiesetta vennero abbattuti, per ordine del R. Governatore di Afragola, perché ricovero di malfattori d'ogni risma e di ladri. Coll'abbattimento coincise, non certo fortuitamente, la visita a Napoli della Regina Maria Carolina d'Austria. Documenti del tempo angioino ci informano di una «Villa Arcus pinti», di un «Casale Arcus pinti», «loco ubi dicitur Arcus pintus», Il Chiarito, nel '700, confonde Archora con Arcopinto. Quest'ultimo restò, ad un certo momento, disabitato; su Archora, invece, sorgerà Casalnuovo.  Canterello - Anche questo villaggio fiorì, nei tempi antichi, in agro afragolese. Si ha memoria di esso in documenti della metà del secolo XII. Sotto Re Carlo Il e Re Roberto, è riportato come casale, o come villa. La zona di Canterello doveva svolgersi a oriente di Afragola, verso la contrada del Salice.  S. Salvadore delle Monache. Si tratta di un villaggio, distrutto fin dai tempi antichi, e che era in distretto di Afragola. Di esso fanno cenno documenti dei tempi di Federico Il e di Carlo 1, e lo presentano come casale. Esso aveva anche la sua chiesa, dedicata a Gesù Redentore, e dipendente dalla Chiesa metropolitana di Napoli. Il «beneficio» della Chiesa, distrutto il casale, passerà alla chiesa di S. Maria d’Aiello.  Arcora - Si trova fatta menzione di questo casale fin dal 949, in un antico diploma. Sotto i Re Carlo I e Carlo Il d'Angiò, tra i villaggi di Napoli c'è «Villa Arcore», «Casalis Arcore». Il nome dovette trarre origine da qualche arco ivi esistente per la conduttura delle acque del Serino. Sotto i Re Angioini dovette, per un periodo, rimanere senza popolazione: Arcora non habitatur; propterea non taxatur. Nel caso, chi avrebbe dovuto pagare le tasse? La confusione del Chiarito, che confonde Arcora con Pomigliano d'Arco, è grossolana. Pomigliano mai ha sofferto un fenomeno di spopolazione; come, nel caso, Arcora, già al principio della Dinastia aragonese. Tra i casali dell’ager neapolitanus, accanto ad Arcora vengono rispettivamente elencati Pomigliano (Pomilianum foris Arcora) e Licignano (Licinianum foris Arcora). Ormai disabitato, il territorio di Arcora venne concesso, per reale clemenza di Ferdinando I d'Aragona, ad Angelo Como o Cuomo, il quale vi fece sorgere vari gruppi di case, che prenderanno il nome di Casale Nuovo. La grave vertenza fra Como e Cesare Capece Bozzuto, barone della parte feudale di Afragola, si compose - per sovrano interessamento di Alfonso d'Aragona -, con un sopralluogo di tecnici e di avvocati – : il nuovo villaggio, costruito in territorio di Arcora, era sotto la giurisdizione di Como; ma Como doveva pagare al Bozzuto la somma di once trenta (come era stato stabilito dagli arbitri), e l'apprezzo.  Salice - Si tratta di un altro degli antichi villaggi, fioriti in agro afragolese. Di esso dava cenni, nei suoi manoscritti, Matteo Spinelli da Giovenazzo: si descrive la partenza di re Carlo 1 d'Angiò, nel 1265, da Benevento per portarsi a Napoli. Al Salice, il 24 febbraio, ricevette l’omaggio dei Nobili e dei popolani della Città. I 18 Cavalieri, che facevano parte del governo della Città, uniti al popolo, accompagnavano M. Francesco Loffredo, Eletto del Governo: disceso di cavallo con i compagni, presentò al Re le chiavi della Città, parlandogli molto acconciamente in francese; ma il Re «con grande umanità comandò che cavalcasse, e venne ragionando con lui un gran pezzo». Il Summonte riferisce un fatto d'armi seguito, nel 1423, tra le truppe di Re Alfonso I con quelle di Sforza, capitano della Regina Giovanna II. V'era anche, sulla regia strada delle Puglie, un tempietto dedicato a S. Maria di Costantinopoli. Verso il Salice, v'era anche una contrada detta «lo Salvatoriello», che doveva essere ubicata, per il Castaldi, a settentrione di Afragola, dopo la chiesetta di S. Maria la Nova. Il luogo conserverà poi il nome di S. Salvatore al Vatracone. Dovette qui sorgere anche un tempietto, dedicato al SS. Salvatore: «S. Salvatore ad Petraconem », cioè «ad Petri Iconem » (presso la icone o immagine di Pietro). L'Ara augustea - Anni addietro anche ad Afragola si poté ammirare un'ara augustea. Il cippo ad ara di travertino misurava in altezza m. 1,17, in larghezza m. 0,55, ed era grosso m. 0,68. Aveva un bel capitello, lavorato finemente a becco; recava la dedica, in caratteri dell'epoca: ad Augusto Imperatore, AVG. SACR. (Augusto Sacrum). La base ricordava l'epoca nella quale il Senato decretava ad Augusto Imperatore gli onori della Divinità. E' da credersi che questi antichi abitatori abbiano alzata quest'ara per un atto di devozione, e forse anche di ringraziamento al divino Augusto Imperatore. La base romana, studiata dall’illustre Matteo Della Corte, e relazionata negli Atti dell'Accademia dei Lincei, attribuita al I secolo, era stata usata, in un primo tempo, nella locale chiesa, come acquasantiera; in un secondo tempo, poi, quel masso, abbandonato perché non più utilizzabile, sarà adibito, con squisito senso pratico, dai contadini del luogo con funzione di scansacarri, ad un angolo di piazza S. Marco. Su quella base onoraria, conservata poi nel palazzo municipale, il Can. Aspreno Rocco, nel 1948, alla vigilia della erezione del monumento al poeta umanista e archeologo Gennaro Aspreno Rocco, in piazza Gianturco, pensava di usarne come piedistallo al busto dell’illustre zio poeta. Quale fu la sua maraviglia, quando venne a conoscere, incredibile ma vero, che quel marmo era finito in frantumi, per esser utilizzato come brecciame.  Altre testimonianze - Valga la pena di dare un cenno di altri importanti centri di vita e di storia; così, sulla via interna che dal confine di Crispano raggiungeva l'angolo di via Diaz di Caivano, nelle vicinanze della chiesa di S. Barbara, nel 1923 si ebbe la scoperta di un sepolcro atellano, in occasione di lavori di sterro per fondazione. L'ipogeo, ricostruito in un cortile del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, offre, a Neapolis, l'unico documento di pittura della fine del I secolo d.C., successivo cioè alla ricca documentazione pittorica delle città vesuviane. La «Storia di Napoli» ne dà una riproduzione a colori nel I volume. Né ancora deve sfuggirci che nel 591 era già fiorente a Campiglione di Caivano, a qualche Km. da Afragola, un tempietto, dedicato alla Madonna, e del quale in quell'anno ebbe a interessarsi, in una lettera, lo stesso Papa Gregorio Magno. Il Castaldi affermò essere quella chiesetta già un tempio cristiano adulto nel sec. VI. Forse, tra Caivano ed Afragola, si era già trapiantato un ramo, della famiglia Pisone di Roma. Lo stesso Augusto aveva da noi trapiantata una colonia romana per ripopolare Atella, che accennava a finire. Forse gli stessi Pisoni, con gli altri patrizi romani avevano seguito gli Imperatori (Tiberio e Ottaviano), che ad Atella venivano a diporto, e anche per assistere alle popolari fabulae, e avevano acquistato estensioni di terreno, ad un paio di Km. da Atella. Si vuole che la sala adattata a riunioni religiose, dopo l'Editto di Milano (313), sia stata trasformata in una chiesina, aperta al pubblico culto. Piccole necropoli son venute a luce, in vari periodi, al confine di Cardito-Afragola, in località S. Eufemia di Carditello, e dalla interessante suppellettile sono state datate al IV-III sec. a.C. La ipotesi avanzata dal Castaldi, che nella zona fiorisse qualche sottofabbrica (di grandi Fabbriche Cumane) per elaborazione di corredi funerari, rivela tra l'altro come anche ad Atella fossero presenti i Sanniti che, alla fine del V secolo, scendendo dai monti alle coste, avevano invaso quasi intera la Campania.  L'antico sito di Afragola - Bartolommeo Capasso, ci presenta, in una breve descrizione, l'Afragola di mille anni addietro: «Ad mille passus circiter a Fracta niaiori versus Neapolim et ad orientem tunc temporis extabat Arcupintum, cuius loci nomen tantum superest, et Cantarellum, ubi prope locus Gualdum seu Gualdellum, ecclesia S. Salvatoris, obedientia monasteri S. Gregori maioris a qua deinceps quidam vicus S. Salvatoris de ille monache dictus fuit. In viciniis nunc occurrit Afragola, tunc Afraore, ex illorum locorum destructione adauctum. Ibi campus S. Severini et formae veteris aquaeductus, unde Cantarelli supra memorati nomen ». Cioè, verso il 1000, a mille passi dall'attuale Frattamaggiore verso Napoli e ad oriente, si trovava il villaggio di Arcopinto (di cui oggi appena sopravvive il nome), e quello di Cantarello; nelle vicinanze una specie di bosco e anche di palude; poi la chiesa di S. Salvatore, che dipendeva dal monastero napoletano di S. Gregorio maggiore. Da questa chiesa trasse nome un altro villaggio, S. Salvatore delle monache. In queste vicinanze sorse Afragola, che fu incrementata dalla distruzione di questi precedenti villaggi. Vi si trovava anche il «campus» di S. Severino, e le strutture di un vecchio acquedotto (di qui dovette trarre nome lo stesso villaggio di Cantarello). Lo stesso Capasso ha letto un documento importantissimo datato al 1130 o 1131, scritto in caratteri longobardi. Per la prima volta, secondo il Capasso, si aveva menzione di Afragola. Nello stesso documento, in cui si descrivono concessioni di vari fondi rustici fatte all'abbate del monastero napoletano dei SS., Severino e Sossio, si fanno anche cenni di altri villaggi, allora fiorenti: Licignano (presso Casalnuovo), Sant’Arcangelo (presso Caivano, ed ora solo pochi ruderi), Cantarello, S. Salvatore delle monache, villaggio e chiesa di S. Martinello e di Maria, di Mugnano, Crispano, Calvizzano, PugIiano, Qualiano. Si parla ancora della terra di S. Giorgio e di S. Maria. Cioè, al 1131 almeno dovevano esistere due benefici, rispettivamente intitolati a S. Giorgio e a S. Maria, da cui dovettero trarre origine le due omonime chiese parrocchiali, tuttora fiorenti. Da qualche documento di epoca normanna possiamo andare ancora indietro alla data del Capasso, cioè del 1131. Infatti è dell'agosto del 1143 una «carta di donazione», richiesta da un tal «Pagano, figlio del fu Nicola, de la Frahola», e dalla moglie Mansa, che donavano un terreno della estensione di 22 quarte, nella contrada di Cupolo non lungi da Aversa. E' evidente che la esistenza di Afragola debba per lo meno anticiparsi di un ottantanni. Nel «Codice Diplomatico Normanno», di Alfonso Gallo, molti documenti danno cenni di Afragola. Vogliamo ancora ricordare che, tra i villaggi preesistenti alla città di Aversa, e poi distrutti, v'era anche Casapascata, una antica «villa», già ricordata da Pietro Diacono. L'illustre storico ricorda che questa villa, esistente in Liburia, nel 1105 fu donata ai Benedettini da Vilmundus della Afabrola (cioè era nativo di Afragola).  Il grande affresco e la fondazione del Casale - La leggenda che Afragola sia stata fondata da Ruggero il Normanno, manca di ogni fondamento storico. Nel 1886, il pittore Moriani, chiamato ad affrescare il salone comunale, volle raffigurarvi l'omaggio del popolo al Sovrano, che gli avevano suggerito come fondatore della città. Il gran quadro, che adorna il cielo della vasta sala, presenta sullo sfondo di una selva lontana la maestosa figura di Ruggero, circondato dai primi coloni soldati, e in atto di dare loro il possesso delle terre loro assegnate. A fare lieta accoglienza al Re, accorrono gioiosi i contadini che si trovano per quelle campagne, mentre fanciulli e giovanette curve al suolo si danno grande premura di raccogliere le rosse e piccole fragole, ed in gara festosa ne fanno dono al beneamato Sovrano. Ciò vuol dire che mille anni addietro il terreno agrario afragolese produceva anche le fragole; tuttora lo stemma di Afragola raffigura appunto un rametto che porta delle fragole. Se si trattasse, nel termine di Afragola, di una a privativa (e cioè senza fragole), e non derivativa, l'andare in giro con uno stemma che presenta fragole, o è una provocazione, o è una ridicolaggine; del che bisognerebbe far giustizia. Lo stesso nostro storico locale, il Castaldi, che scriveva nel 1830, nelle sue «memorie » afferma che Afragola «ha preso sicuramente il suo nome dalle Fragole, e dall’a privativa, che vuol dire absque fragis, perché la coltivazione di queste piante sì comune in Fratta Maggiore, in Cardito, ed in altri paesi limitrofi non è stata in uso presso gli Afragolesi ne' tempi scorsi, per quanto è a mia notizia, né v'è attualmente». Dobbiamo riconoscere che il Castaldi, discutibile storico ma buon umanista e uomo di legge, era poco e male informato. Infatti, il terreno afragolese produce fragole. Inoltre, riguardo alla fondazione, il Castaldi scrive: « E' vecchia tradizione, che sotto il Re Ruggiero I, fondatore di questa monarchia, il Comune di Afragola cominciò a sorgere sulla Regia strada di Caserta propriamente nel luogo denominato la Regina tra Arco Pinto, e Cardito, dove si costruì benanche una Chiesa dedicata a S. Martino, e che poco tempo dopo, per isfuggire gl'inconvenienti del continuo passaggio delle truppe, fu trasferito nel sito, ove attualmente si trova ». Contro i molti, i quali affermano che Afragola sia stata fondata da Ruggero I o Ruggiero, tra il 1139-1140, facciamo notare non solo che la cittadina già precedentemente esisteva, ma ancora che Ruggero I si era spento nel 1101, mentre è Ruggero II che viene a morire nel 1154. Che Afragola cominciasse a sorgere nel 1140, al tempo di Ruggero I, fu affermato prima dallo Stelleopardis, poi dal Giustiniani; Castaldi, senza rendersi conto di quanto riafferma, ripete l'errore dei due dimenticando, tra l'altro, che già da 39 anni, nel 1140, il I Ruggero era nella tomba. Non vogliamo negare a priori questa incipiente opera di colonizzazione operata dal Sovrano napoletano, chiunque esso sia; d'altra parte ad Afragola non dovevano mancare terreni boschivi, e forse anche paludosi, al confine coll'agro acerrano, per dove scorreva il Clanio. Ma non poteva pretendere di fondare una cittadina il Sovrano, con un piccolo gruppo di famiglie che venivano ad abitare sulla nostra terra. Afragola era già esistente, e doveva avere anche una certa importanza se il Sovrano la scelse perché desse ospitalità a questo gruppo di famiglie di ex-combattenti (in gergo nostro), che creavano una prima rete di «poderi ».  Le antiche famiglie - Che il Ruggiero avesse preteso fondare una città con 10 famiglie, ci sembra un po’ poco. Lo Stelleopardis, alla cui paternità si è voluto attribuire la storia delle nostre origini, con tutte le possibili conseguenze, ritiene che i soldati premiati appartenessero alle seguenti famiglie: Castaldo, Fusconi, Iovini, Muti, Tuccillo, Commeneboli, Fortini, del Furco, Cerbone, de Stelleopardis; di queste, le prime otto nel 1140 vennero ad abitare e a fondare Afragola; le ultime due vi si trasferirono, da Napoli, solo quando Afragola passò sotto il dominio dell'Arcivescovo di Napoli. Dopo la fondazione, altre famiglie vennero ad abitare Afragola: Laezza, Cimini, Costanzo, Russo, Piscopo, Caponc, Guerra, Herrichelli, de Silvestro, Zanfardini, e altre. Su queste famiglie, ritenute fondatrici, noi abbiamo le nostre giuste riserve; e dobbiamo lamentare che la storia locale non si scrive ripetendo il Castaldi il Giustiniani, ed il Giustiniani lo Stelleopardis. Le conseguenze sono poi molto evidenti; ed è il «vero storico» a soffrirne le conseguenze. Le antiche famiglie, che abitarono Afragola nel periodo angioino, e che abbiamo potuto raccogliere dalle testimonianze dei ricostruiti Registri angioini, rispondono alle seguenti: Ioannes de Laurentio, Sperindeo, Donatus Fuscus, Neapolitanus de Fusco, lacobus Biscont, Ligorius de Ursone, Petrus de Ursone, Mattheus de Mariliano (queste, riferite agli aa. 1271-1272). Per gli aa. 1272-1276, ricordiamo ancora di altre famiglie: Fredericus Castaldus, Robertus Tubinus, Andreas de Tamaro, Iohannes de Presbitero, Peregrinus de Presbitero, Iacobellus de Dopno Petro, Stephanus Fallata, Composita Mulier, Pascalis Campaninus, Anselmus Tubinus et Dopna Pellegrina. Agli anni 1277-1279 troviamo registrate le famiglie che seguono; ripetiamo i soli cognomi: Mutus, de Falco, Biscontus, de Pagano, Iubinus, Tassatore, Folleca, Carbonis, Castaldus, Guercius, de Avella, de Presbitero, Paganus, Campaninus, Cimina, de Sancto Georgio. Negli anni 1324-1325, e 1341-1342, erano abilitati per l'esercizio della professione di medico, rispettivamente, gli afragolesi Francesco di Iubino, e Stefano di Oferio.  Afragola dal medioevo ai tempi moderni  Possiamo scorgere vestigia di feudalità ad Afragola, fin dal 1278, ai tempi cioè di Re Carlo I. In un diploma di Re Carlo si legge di un tale Paolo Scotto, che possedeva un feudo nel Casale di Afragola, nel luogo detto «a la Fracta», in altro, si parla di una terra feudale sita nella palude di Afragola, nel luogo che si dice « Accomorolum ». Sotto Re Carlo II, in un altro diploma si parla di un tale Pandolfo Gennaro, il quale possedeva beni feudali nel casale di Afragola, nel luogo detto Arco Pinto. Lo stesso Carlo II aveva concesso in feudo al suo medico, Raimondo di Odiboni, le cesine di Afragola per i servizi resi, e da rendere alla camera reale. Le cesine erano, a quei tempi, terreni una volta boscosi e poi resi alla cultura, col tagliarsi gli alberi, col bruciare le ceppaie e i tronchi degli stessi. Il medico a sua volta doveva corrispondere un certo quantitativo di zuccaro: «zuccari albi boni rosacei libras decem donec vixerit». Più tardi queste cesine furono comprate da Guelielmo de Brusato, che acquistava da Giovanni Protomedico. L'indicazione della vecchia strada Cesinola è ancora viva nel linguaggio del popolo; anche se si è provveduto, con scarsa intelligenza, a cambiare la intestazione in Via Toselli. Le Cesine dovettero quindi essere un feudo di una certa consistenza. Beni feudali in Afragola possedette anche Ermigaldo de Lupian. Lo sfortunato afragolese, fin da tempi antichi, sente proiettarsi, sul povero paesello, l'ombra sinistra del feudatario avido sempre di spillare danaro dalle modestissime risorse economiche della cittadina agricola, che viveva esclusivamente del lavoro dei campi. Quanto duro e quanto incerto nel raccolto, non è a dire. Sono pagine dolorose nelle quali lessero i nostri nonni. E fu purtroppo la volta anche della stessa Curia arcivescovile di Napoli. Al tempo di Re Roberto (1309-1343) nei documenti si parlava di «annui census eidem Neapolitanae Ecclesiae pariter debiti»; e un censo raggiungeva l'onere «unciarum auri duarum». Sia l'arcivescovo di Napoli che la chiesa metropolitana possedettero in Afragola censi e feudi rustici, con abitanti addetti a questi fondi; e solo impropriamente abbiamo spesso sentito chiamare costoro, «vassalli». Al tempo di Roberto, gli afragolesi si erano già riscattati dall'arcivescovo napoletano. Mai, quindi, la chiesa metropolitana o l'arcivescovo di Napoli si sono intitolati baroni della parte feudale di Afragola. In dominio però dì quella Chiesa erano due piccoli villaggi: S. Salvatore delle monache, fiorente ancora verso il 1200, nel distretto di Afragola, e Lanzasino, poi distrutto, ma precedette l'attuale Arzano. Non sappiamo quali siano state le origini della feudalità afragolese; se cioè ebbe luogo col nascere della città, o se vi si introdusse per l'incorporazione di paesi ad essa successivamente aggregati. Una cosa è certa, che cioè non tutta Afragola fu feudale, ma solo parte di essa, con molta probabilità quella parte dove si stendevano le due chiese, quella di S. Giorgio e l'altra di S. Marco. Infatti, nel distretto della parrocchia di S. Giorgio si trovava il palazzo baronale, al cantone della strada detta di Avignone, più tardi trasferito nel castello, presso la stessa chiesa di S. Giorgio, di cui tuttora esiste la gran parte, anche se ha subito varie trasformazioni. Quando si parla di parte feudale, il discorso si fa, in un certo senso, piuttosto intricato e difficile. Comunque, tra i vari possessori del feudo, si fa il nome del salernitano Tommaso Mansella. Questi, a sua volta, vendeva a Roberto Conte di Altavilla, Afragola e Marianella. Afragola fu posseduta dal conte di Trivento, il quale, col patto «de retrovendendo», vendeva poi a Gualtieri Galeota; fu posseduta ancora da Marino De Martino, fratello uterino di Errico Dentice, che mori senza prole, ed ebbe «certas terras» in Gesualdo ed in Afragola. Tali vicende della parte feudale si inseriscono in un arco di tempo piuttosto breve, cioè dal 1337 al 1350. Si tratta, nel caso nostro, di semplici tenute feudali senza abitanti, o anche di qualche locus abitato, sito nel territorio di Afragola, ma distaccato dal medesimo comune. In effetti poi le cose stavano diversamente per la vera parte feudale di Afragola, che la famiglia di Durazzo, verso il 1337, comprò dalla famiglia d’Ebulo; e che, nel 1381, Carlo III di Durazzo, re di Napoli, vendette alla famiglia Capece-Bozzuto. Questa farmiglia, per circa due secoli, fu in possesso della parte feudale. Nel 1576 fu quella obbligata a venderla alla medesima Università di Afragola. Nella nota esibita da Paolo Bozzuto per la vendita si fa menzione del vecchio castello afragolese, che si definisce «commodo... et grande», per 5000 ducati; per il quale prezzo il Comune di Afragola concordò l'acquisto, segno che dovesse essere allora in ottimo stato. Il Castello formava come una grande isola, protetta dà torrioni e fossato. Eliminando quest'ultimo, fu poi sistemata l'ampia rotabile, sulla quale guarda la imponente chiesa di S. Giorgio. Più tardi, il Comune fu costretto ad alienare parte del castello a favore di «particolari », per private abitazioni. Circa la terza parte del castello, pervenne nelle mani della famiglia Grossi, e poi, per ducati 1098, dal parroco Russo della chiesa di S. Giorgio, nel 1685.  Dal prezzo pagato risalta il pessimo stato dello stabile. Nel 1690 la Parrocchia alienava, per 1600 Ducati, la parte del castello alla principessa Caterina Morra. Nel 1726, la famiglia Morra vendeva lo stabile, ormai inabitabile, a Gaetano Caracciolo del Sole dei Duchi di Venosa, per la somma irrisoria di 1000 D. Il Caracciolo rifece lo stabile ab imis, e lo ornò fastosamente. Fece anche murare una lunga epigrafe, nella quale ricordava che la regina Giovanna II frequentemente venisse a distendersi nelle battute di caccia della Selvetella, e si accompagnava, per l'occasione, al suo fedelissimo favorito Sergianni Caracciolo, che Gaetano Caracciolo riteneva suo chiaro antenato. Le vicende leggendarie, frequenti nel popolino, attorno alla regina Giovanna, pare che debbano attingere, per gran parte, alimento, da quel marmo; manca in merito una documentazione storica. Alla fine del ‘700, lo stabile ancora una volta si ridusse ad uno stato di abbandono. Questa volta ebbe considerevoli riparazioni dal Sac. Ienco, che promuoveva ora la istituzione di un orfanotrofio, approvato con regio assenso nel 1798. Nel 1805, il Sacerdote Ienco e i fratelli Fatigati acquistavano dai Caracciolo del Sole, a titolo di enfiteusi affrancabile, quella parte del Castello, per un canone annuo di 153 ducati. Attualmente, accoglie una interessante istituzione socio-educativa, diretta dalle Suore Compassioniste, ospitate ad Afragola da un secolo. Cesare Capece Bozzuto, barone della parte feudale di Afragola, è anche noto per la vertenza che ebbe con Angelo Como, nel 1490; il Capece pretendeva di impedire la costruzione delle case (che poi formeranno Casalnuovo), perché quelle sorgevano su un territorio, che era di sua giurisdizione. E' chiaro che chi possedeva la parte feudale di Afragola, si intitolava barone dell'intero Casale. Così, nel 1305 Guglielmo Grappino o Glabbino, possedeva la parte feudale di Afragola e vi costituì le doti di sua moglie, Giovanna de Glisis. In una carta del 1313 si legge di questa donna: «Domina Afragole Joanna de Glisis»; cioè Ioanna de Glisis era domina di Afragola. Impossibilitati a tracciare, dettagliatamente, le vicende della feudalità afragolese, possiamo appena fissare qualche punto: Nel 1330 Nicola di Ebulo, conte di Trivento, teneva e possedeva «immediate» dalla Regia Curia il Casale di Afragola, nella parte feudale; nel 1337 Nicola pensò vendere ad una società commerciale fiorentina, quella di De Peruciis; il Sovrano, in giugno, aveva anche dato il suo assenso per l'alienazione; che, con molta probabilità, mai fu portata a realizzazione. In effetti, nel medesimo periodo di tempo, questa parte feudale venne alienata a favore dei fratelli Carlo duca di Durazzo, Ludovico e Roberto, i quali, nel 1337, comprarono da Nicola di Ebulo, conte di Trivento, il casale di Afragola, sito nelle pertinenze di Napoli; cioè, quella medesima parte del casale, che costituiva il feudo. Carlo duca di Durazzo, uno dei tre compratori del feudo, aveva sposata una sorella della Regina Giovanna I, di nome Maria e finì giustiziato nel 1348, ad Aversa, per ordine di Ludovico Re d’Ungheria, giunto a Napoli per rivendicare la morte del fratello Andrea, soppresso proditoriamente nel castello angioino di Aversa, con la supina acquiescenza della bella e fatale moglie Giovanna. Carlo, figlio di Ludovico duca di Durazzo, aveva sposato Margherita, nipote della Regina Giovanna I, e quindi la più prossima alla successione del Regno. Divenuto intanto Re di Napoli, nel 1381, col nome di Carlo III di Durazzo, d'accordo con la moglie Margherita, vendeva la parte feudale di Afragola ereditaria «tanquam patrimonialem ex successione quondam progenitricis eorum». Vendevano, così, alla famiglia Capece-Bozzuto di Napoli, con pubblico istrumento, in data 2 maggio 1381. Avevano in quel periodo urgente bisogno di realizzare danaro per difendere il Regno contro Ludovico duca d'Angiò, che tentava di invaderlo. Quella vendita è ratificata e approvata anche da Giovanna duchessa di Durazzo, la quale intervenne alla celebrazione dell'Istrumento, per quei diritti che a lei potevano spettare. Il prezzo convenuto ridotto alla moneta corrente (nella valutazione che il Castaldi ne faceva nel 1830) ascendeva a circa 4500 ducati. Il documento fu stipulato, in Castel dell'Ovo, il 2 maggio 1381. Giacomo, Giordano, e Giovannello Capece-Bozzuto, fratelli, compravano, chiaramente, solo la parte feudale di Afragola, mentre l'altra rimaneva in potere del Regio Demanio. Giovannello, col figlio Nicola Maria, il 1° gennaio 1419, per sovrana concessione della Regina di Napoli, Giovanna II, aveva anche la giurisdizione della parte feudale di Afragola. A Nicola Maria, nel 1465, successe il figlio Pompeo Capece-Bozzuto. Nel 1490 venne in possesso del dominio Cesare Maria Capece-Bozzuto. Nel 1513 a Cesare seguì Giovanni Capece-Bozzuto. Nel 1548 a Giovanni succede Trojano Capece-Bozzuto; nel 1557, a Troiano successe Ludovico; nel 1571, a Ludovico, successe Paolo Capece-Bozzuto, l’ultimo possessore della parte feudale di Afragola. Nel 1575, Paolo Capece Bozzuto avanza all'autorità viceregnale del tempo, una domanda, con cui voleva comprare anche la parte demaniale della nostra Afragola, e nel contempo fa una offerta di 7000 ducati per il Regio Fisco. L'università di Afragola, mai avrebbe potuto consentire che ancora i baroni avessero continuato a intitolarsi padroni dell'intero paese, e avessero continuato a maltrattare i cittadini. Era questo il momento opportuno per il riscatto, per riacquistare le libertà civili. E fu la volta buona. Memore delle varie controversie, dibattutesi tra il Barone e la Università (o Comune, come nel nostro gergo), l'Università presenta l'offerta per la compera sia della parte demaniale, in ducati 7000, che per la parte feudale, nonché per i beni burgensatici, che la famiglia Bozzuto possedeva sul posto, in ducati 20.000, onde esimersi evidentemente da ogni eventuale molestia. L'offerta era stata presentata da parte del Comune; ma, in data 22 dicembre 1575, il regio Consiglio Collaterale, con apposito decreto ammetteva l'offerta già fatta dal Bozzuto, dei 7000 ducati, offerti al R. Fisco per la compera della parte demaniale di Afragola; ma soggiungeva che, se tra un mese la Università di Afragola avesse offerto e depositato nel pubblico banco la somma di ducati 27000 (vale a dire, 20000 ducati quale prezzo della parte feudale e ogni altro fondo e diritto spettante al barone Paolo Bozzuto, e 7000 ducati dovuti alla Regia Corte per la parte demaniale), la stessa università avrebbe dovuto esser preferita nella compera, e quindi l'intero casale avrebbe dovuto rimanere nel perpetuo demanio. Il Comune adempie alla offerta e al deposito della somma in parola; perciò il Collaterale, con decreto del 12 gennaio 1576, dispone e fa obbligo al barone Paolo Bozzuto di vendere la parte baronale con qualsivoglia altro diritto, il castello, e altri beni posseduti in Afragola, secondo la nota medesima dallo stesso esibita alla università del comune, per la somma di ducati 20000 richiesta, e di fare le debite cautele. Con il medesimo decreto si faceva ordine alla Regia Corte di vendere altresì alla stessa Università la parte demaniale spettante alla medesima R. Corte per la somma di ducati 7000. In tal modo l'intero casale rimaneva nel perpetuo demanio; si ordinava anche di stipulare le cautele corrispondenti. Queste, per quanto riguardava il R. Fisco, furono stipulate il 1° febbraio 1576, per notar Tommaso Agnello Ferretta. Da parte sua, il Comune di Afragola stipula le cautele e paga a Paolo Bozzuto i 20000 ducati. Nell'istrumento con la Regia Corte si conveniva ancora, espressamente, che, ove mai per una imperiosa circostanza e molto grave motivo e non senza una particolare ingiustizia, il Casale avesse dovuto esser altra volta venduto, a ogni altro acquirente avrebbe dovuto esser venduto, tranne ad appartenenti a rami della famiglia Capece-Bozzuto. Il Chioccarelli accenna ancora ai vassalli di Afragola, che erano sottoposti alla Chiesa arcivescovile di Napoli. Dobbiamo ricordare che gli arcivescovi di questa chiesa non erano padroni dell'intero casale, bensì solo dì una parte. Anzi, il nostro storico era della convinzione che alcune famiglie afragolesi, o meglio alcuni uomini, fossero stati vassalli della Chiesa di Napoli. Ma, quando scriveva il Chioccarelli, la Chiesa napoletana già non teneva più quei vassalli; né si conosceva il come e il quando in cui li avesse perduti. Ma possedeva immense ricchezze terriere, delle quali tuttora permane la triste memoria. Di questo argomento vogliamo spendere un più ampio cenno. Siamo dinanzi ad un episodio che merita di essere considerato nel suo giusto valore. Il Chioccarelli ci informava che in Afragola si trovassero alcuni vassalli della Chiesa Cattedrale di Napoli, e riferiva che l'arcivescovo Ajglerio nel 1279 avesse avuto controversia circa il pagamento dei tributi dovuti al Regio Fisco. Dai quali tributi l'arcivescovo aveva sostenuto dovessero esser esenti i suoi vassalli, tra i quali sono da menzionarsi quelli di Afragola. L'Ajglerio pertanto aveva potuto ottenere che alcuni altri vassalli, in stato di carcerazione, fossero stati rimessi in libertà, e non affatto molestati per il pagamento dei tributi, fino a quando la questione non fosse stata regolarmente decisa. Nel medesimo tempo, l'arcivescovo aveva potuto ottenere dal re Carlo Il che avesse ordinato che animali e altri beni, messi sotto sequestro, in danno di quei vassalli, venissero restituiti ai medesimi proprietari, ma con una cauzione. I rapporti tra l'arcivescovo di Napoli ed il Re di Napoli vanno, adeguatamente e opportunamente, chiariti. Giacché dobbiamo ricordare che Carlo I d'Angiò aveva ottenuto da Papa Urbano IV la investitura di Re di Napoli, nel 1266, a patto però che, annualmente, dovesse versare nelle casse della Sede papale la somma – non certo indifferente a quei tempi, anzi addirittura scandalosa – di ben 40.000 ducati. Ogni ducato corrispondeva, nella valutazione del tempo, e anche più tardi, a lire 4,20. Ma una somma di quei tempi, in ragione di 170 mila lire, era una autentica estorsione, una rapina. Non vi erano acque tali da soddisfare questa santa sete. Ma il Sovrano mai avrebbe potuto mantener fede a questo impegno che lo vincolava nei riguardi della Sedia papale. Fu allora che venne ad un accordo con l'arcivescovo di Napoli – era allora vescovo, Mons. Bernardo Caracciolo – per contrarre un debito in solutum, per once 200 di oro. In cambio cedeva al Caracciolo, come vassalli, civiliter tantum, gli abitanti della villa delle fragole. Una triste pagina di storia, sulla quale avremmo voluto far calare il velo della cristiana carità e comprensione; ma ce lo impediva il nostro dovere coerente e responsabile di studiosi ed elaboratori di cose storiche.  

 

 

Casoria 

(estrato da sito internet)    

 

 Il nome di Casoria, si ritiene abbia origine dalla definizione Casa Aurea, poi diventata Casaurea, e successivamente Casoria. Secondo alcuni Casoria deriverebbe invece da "Casa Mauri". Il nome appare comunque per la prima volta in una cronaca dei Duchi di Capua scritta da un anonimo nel 948-949. Casoria è indubbiamente una delle più fiorenti cittadine della "Campania felix". Adagiata in una fertile pianura attaccata al territorio metropolitano, in vista del Vesuvio e della prima giogaia degli appennini, essa non è nuova ai fasti opimi dell’agricoltura e del commercio, anzi fin da epoca remota è stata una perla floridissima della nostra lussureggiante regione. Poche tracce sono conservate oggi dal più remoto passato del primo nucleo ove attualmente sorge Casoria. Tra queste è una lastra di marmo con epigrafe greca e latina risalente al 194 d.C. forse copertura tombale venuta alla luce da scavi casuali nella contrada Carbonella e conservata oggi nella sala epigrafe del Museo di Napoli.  Da questa lastra si deduce che in quel lontanissimo periodo il luogo doveva essere addetto a riunioni mistiche di un collegio di donne celebranti i misteri della dea TELBIA CASTIA. Dall’epigrafe risulta inoltre la costruzione di un tempio dedicato ad Artemide (particolarmente venerata a Napoli). Un antico documento storico rinvenuto è la lapide del sarcofago del guerriero Iacopo da Fano, che, venuto in Casoria al seguito di Innocenzo IV nel 1254, morì nel 1281 e fu sepolto in una Cappella che sorgeva sullo stesso luogo dell’attuale chiesa di S. Benedetto. Si può dire che le origini di Casoria risalgono al V secolo d.C. Da importanti documenti storici esistenti nella Biblioteca della Badia di Montecassino si rivela che questo fertile territorio, chiamato "agro gentiano" fosse di proprietà della famiglia senatoriale romana degli Anici, donato dal Senatore Equizio Anicio, padre di S. Mauro, attuale protettore di Casoria, a S. Benedetto da Norcia, con atto di donazione del 15/07/529. Dopo la morte di S. Mauro, Monaco Benedettino, i religiosi di Montecassino, recandosi a Casoria, ogni anno, per il raccolto, edificarono una Cappella in onore di S. Mauro per la celebrazione dei loro riti. Più tardi sorse un’altra chiesa, poco lontano, in onore di S. Benedetto. In seguito, i Benedettini, perdettero quel vasto territorio, lo riebbero, e nell’anno 924 lo perdettero definitivamente, ed il campo "Gentiano" venne frazionato e venduto. Presso la biblioteca Nazionale di Napoli, esistono libri storici da cui risulta che diversi sono stati i feudatari che hanno dominato su questo territorio, allora di 4000 moggia di terreno, e cioè, Isabella, moglie di Giovanni de Cipolla; Carlo di Sanframondo; Giacomo di Costanzo; Lucio De Sangro e Lucrezia Brancaccio. Ma, in tali e tanti passaggi di dominio, gran parte del territorio fu perduto ad eccezione di una fertilissima zona che tuttora conserva il Comune di Casoria, limitrofa a Ponticelli (Sez. di Napoli) e che si estende fino alla frazione Arpino, limite di confine con Napoli. Durante il periodo Longobardo il territorio gentiano fu tolto ai religiosi cassinesi, frazionato e venduto a privati e una sola parte fu conservata e ceduta al Comune di Casoria. In quel tempo inoltre, venivano chiamati Casarii gli abitanti di rudimentali capanne; queste ultime venivano dette "Casuri" che significò, appunto "Case povere". Ciò, quindi, fa supporre che il primo nucleo abitato fosse costituito da qualche gruppo di case rustiche, capanne di paglia e di saggina, tutt’al più con base di pietra come se ne costruirono fino al 1860. Nel Medioevo il villaggio di Casoria divenne feudo, passando dal vassallaggio all’Arcivescovo di Napoli nel 1279 alla proprietà di vari signori; nel 1428 Casoria faceva parte di un unico feudo con Casignao e Olivola. Dopo il 1580 probabilmente i cittadini di Casoria riscattarono la loro patria dal gioco baronale e si aggregarono al Real Demanio. Secondo quanto riportato da Paone, nella "Appendice alla vita di S. Mauro", nel 1631 il territorio di Casoria fu messo all’asta essendo stata decretata, dal Vicerè Spagnolo di Napoli la vendita di terre e villaggi del Napoletano. Gli abitanti del villaggio (trecento famiglie) tuttavia si ribellarono a tale imposizione accettando invece di pagare una forte somma per il loro riscatto (pari a dodicimila ducati) A quel tempo Casoria aveva 1600 abitanti e faceva parte dei numerosi "casali" dell’ "ager neapolitanus" dei quali, nel periodo vicereale, era frequente la vendita a privati per rimpinguare le finanze dello Stato. La feudalità si estende realmente solo alla fine del XVIII secolo; durante il settecento, infatti, si avvicendarono al possesso di Casoria le famiglie SANGRO e RONCHI. Giulio Comite, regnando Carlo III di Durazzo, acquistò il feudo che più tardi passo a Fabio Capece Galeota. Fu riscattata la seconda volta e definitivamente dal casoriano Giovanni Pisa, Sindaco dell’epoca, con istrumento 15/4/1631 del Notaio di Corte Massimini Passari, con l’intervento di don Ferdinando Afan Enriquez de Ribera, duca di Alcalà, Vicerè del Regno di Napoli, Giulio Comite, Giovanni Pisa e il Deputato D. Donato Ferrara. I dintorni immediati di Casoria fino all’anfiteatro collinoso, dal medioevo al secolo XIX, furono paludosi e malarici, tanto che il Lautrec, accampato col suo esercito, in questo territorio nell’assedio di Napoli –1528- vi perdette due terzi dei suoi soldati ed egli stesso morì. Ma le paludi furono bonificate al principio del 1800 con una rete di canali di 43 Km ed i campi si resero ancora più fertili.  Casoria era un territorio di 4.000 moggia, le strade alquanto larghe e selciate e non mancavano palazzotti di mediocre fattura. L’economia era fondata essenzialmente sul commercio dei vini e sulla produzione della canapa.  UNA "CASA D'ORO" NELL'ANTICA LIBURIA :  Casoria,casale regio di Napoli,è situata sulla strada che da Napoli conduce a Caserta,nella pianura vulcanica compresa tra i Campi Flegrei ed il Vesuvio chiamata nell'antichità Liburia.  Il territorio occupava il centro di una zona che ,grazie alle bonifiche del XIX secolo,fu liberata dalla malaria e fu trasformata in un'area ricca di colture ortive.  Il nome della città appare per la prima volta in una cronaca dei conti di Capua,scritta da un anonimo nel 948-949,ma quasi sicuramente l'abitato esisteva già prima di tale data.  Alcuni storici annoverano Casoria fra i villaggi sorti duranta la dominazione longobarda.  In una carta dell'11 maggio 994 conservata nell'Archivio di San Sebastiano a Napoli ed in altri documenti risalenti fino al XIV secolo la città viene chiamata Casaurea, "casa d'oro,così detta,secondo alcuni studiosi locali,per l'abbondanza di grano che arricchiva le sue fertili campagne al tempo della mietitura. A questa etimologia sembra alludere anche il distico latino collocato in calce allo stemma del paese: "Auro potuit flavesece rura colunus ex auro potui condere et ipse domum" ovvero: "Il colono che insegnò alla campagne a biondeggiare come l'oro potè egli stesso dall'oro costruire la sua casa".  INTORNO AL MONASTERO: Secondo il cardinale Alfonso Capecelatro la città fu fondata nel VI secolo dell'era cristiana,quando San Benedetto e il suo discepolo San Mauro edificarono in questa zona due oratori e un ospizio monastico.I coloni costruirono le loro case intorno ai due oratori e all''ospizio benedettino: sorsero prima due parrocchie,una dedicata a San Mauro e l'altra a San Beneddetto,e in seguto a due piccoli agglomerati urbani che,unificatosi,formarono la città di Casoria.  Come tutti i casali napoletani,anche Casoria era un operoso centro agricolo e artigianale che viveva prevalentemente di commercio con Napoli: ogni giorno i contadini "scendevano" nella metropoli partenopea per offrire uova fresche,pane di casa,vino prezioso e delicato.    Nel corso del Medioevo Casoria subì diversi passaggi di proprietà.In un documento del 1098 si ha notizia della donazione di alcune terre,tra cui Casoria,fatta da Riccardo II,principe di Capua al monastero di San Biagio di Aversa.In una carta del 1115 si fa riferimento alla vendita di questi territori "per duecento tarì d'oro" da parte di Regale,figlia di Sinibardo, a Giovanni de Alberada. Anche in epoca angioina la città era sottomessa: nei registri che abbracciano gli anni 1273-1279 si accenna a un provvedimento di sequestro di animali e di altri beni ai contadini in occasione di un tributo che doveva essere pagato alla Magna Curia di Napoli.  Negli anni 1327 e 1328 Casoria,insieme ai villaggi di Casignano e Olivola,ora distrutti,risultava posseduta da Isabella consorte di Giovanni di Cippoia.Nel 1352 il feudo era governato da Matteo di Sanframondo che aveva due figlie sposate con Giovanni Pacifico e Galeazzo Del Tufo:alla sua morte il feudo fu diviso.Da un registro del 1415 si ha notizia di un Carlo San Frjmondo che,sotto il regno di Giovanna II ,fu padrone di questo feudo,nel quale svolse la funzioni di capitano a vita.Ancora nel 1452 il casale passò a Giacomo di Costanzo da Aversa e nel 1500 fu trasmesso a Lucio di Sagro,successore della famiglia del Tufo e a Giuseppe Pacifico.Nel 1529 ereditò queste terre Placido di Sangro,al quale successe Giovanni Antonio Pacifico che,nel 1561,vendette il feudo a Lucrezia Brancaccio per 5200 ducati. I RAPPORTI COL REGIO DEMANIO:  Negli anni successivi Casoria attraversò vendite e donazioni,passò a vari padroni fino al 1622:in quell'anno il Casale si riscattò dal dominio del barone nicola di Sangro,aggregandosi al Regio Demanio.Ma pur essendosi liberata dal giogo baronale,Casoria fu ancora offerta al migliore acquirente nel 1630;con la vendita dei casali infatti i vicerè spagnoli ricavavano somme ingenti che venivano utilizzate per sovvenzionare le sfortunate imprese militari del re Filippo di Spagna. I Casoriani dovettero fare enormi sacrifici per raccogliere i 6000 ducati da consegnare alla casse del vicerè e finalmente il 9 Marzo 1631,riuscirono a comprare la loro libertà e ad aggregarsi al Regio Demanio.  Nonostante l'impegno assunto dal vicerè a non mettere mai più all'asta il casale,esso fu venduto prima ad Eleonara Mansfeldi e successivamente a Luigi Ronchi:ultimo possessore fu Fabio Capece Galeota,presidente della Regia Camera.Solo con Carlo III di Borbone la città riacquistò la sua libertà diventando per sua altitudine di 70 metri sul livello del mare e la sua aria fresca ,un rinomato luogo di villeggiatura.  La sua importanza crebbe ancora con il decreto del 28 gennaio 1809,divenne uno dei quattro capoluoghi di distretto della città di Napoli.La città fu inoltre servita dalle prime linee ferroviarie:quella di Capua, che utilizzava il più possibile la depressione del Sebeto, e quella per Aversa.

 

 

 Acerra

(estrato da sito internet)

 

Acerra fu probabilmente di origine osche, come molte altre città della Campania interna, compresa la non lontana Suessula. Da quest'ultima essa distava poche miglia e dal suo territorio era separata dal corso del fiume Clanio.Le due città ebbero vita autonoma e destini molto diversi.Suessula, i cui resti sono in parte visibili in località "bosco di Calabricinto" una volta distrutta durante incursioni saracene (circa 880 d.C.) fu abbandonata dai suoi abitanti e non più ricostruita.Solo Acerra ha conservato fino ad oggi lo stesso sito ed il nome (dal latino Acerrae è derivata la forma medioevale Acerra).La città fece parte della dodecapoli etrusca capeggiata da Capua insieme ad altre come Nola, Nuceria, Suessula, i cui siti sono stati in larga misura identificati, anche se non tutti urbanisticamente delineati.Sono basate sulla tradizione degli antichi scrittori, soprattutto di Livio, le notizie della concessione della "civitas sine suffragio" (332 a.C.), privilegio che Roma riconosceva a città che avessero dato prova di fedeltà in momenti particolarmente difficili (il pericolo, in quel tempo, era rappresentato dai Sanniti).Annibale, nel 216 a.C., in cerca di alleati contro Roma, non essendo riuscito a portare, con un'opera di convinzione, Acerra dalla sua parte decise di punirla. Con l'assedio. Gli acerrani, durante la notte, approfittando di varchi lasciati incustoditi e delle tenebre, si rifugiarono in città rimaste fedeli a Roma.I danni apportati dai cartaginesi furono notevoli. "Nocerini ed Acerrani che cercavano (al ritorno) le loro case non le trovarono: Acerra era stata in parte incendiata, Nocera distrutta; a Roma Fulvio fece richiesta al Senato che agli Acerrani si permettesse di ricostruire quanto era stato distrutto".Così nel 211, gli Acerrani, stando alla tradizione liviana, ricostruirono la città con l'aiuto dei Romani.Ma dove era la città ricostruita e dove quella distrutta?Le recenti ricerche archeologiche effettuate nel quartiere Maddalena sembrerebbero confutare la precedente tesi che Acerra preromana si trovasse nell'area del quartiere Gravina, a nord del Centro Storico: vi sono stati infatti ritrovati tratti di un muro di cinta della città, databili all'incirca al IV sec. a.C.Per lunghi anni Acerra sembra vivere la tranquilla vita di una città che diventa" romana" a tutti gli effetti. La lingua e le istituzioni sono improntate alla nuova cultura.Ma la guerra sociale (90 a.C.), che insanguinò molte zone d'Italia e che si propagò in Campania, dove mal si sopportava il giogo romano (centro della ribellione era Capua), coinvolse anche Acerra. Venne ad assediarla Papio Mutilo, attaccato, poi, dal console Lucio Giulio Cesare, presso le mura.In seguito la città divenne Municipium e con la lex Julia ottenne il diritto di voto nei comizi: ciò consentiva ai cittadini Acerrani di accedere alle magistrature anche in Roma.Nell'anno 22 a.C., durante l'Impero di Augusto, Acerra fu assegnata in premio ai veterani: divenne, perciò, colonia militare e perse ogni libertà.Come colonia Acerra perdeva le ultime tracce della sua cultura autoctona ma, in seguito, come Prefettura, dovette rinunciare anche alle proprie leggi e al potere dei propri Magistrati: un Prefetto la reggeva secondo leggi imposte da Roma.Nella Acerra del tempo era diffuso il culto in onore degli dei egiziani Iside e Serapide, ai quali era dedicato molto probabilmente un tempio, come riportano fonti epigrafiche, le quali attestano anche la presenza di un tempio eretto in onore di Eracle e di un anfiteatro, che l'archeologo A. Maiuri ritenne di aver individuato nell'area sottostante il Castello dei Conti, per la particolare pianta del medesimo.Ricerche condotte nel 1982 hanno consentito invece, di individuare, nell'ala delle vecchie scuderie alcune strutture pertinenti alla scena di un teatro di III sec. d.C.Per quanto riguarda i primi secoli del Medio Evo non si riesce ad attingere sufficienti notizie.Nel 494 la città fu aggregata a Napoli e molto più avanti fu dominata dai Longobardi, che vi edificarono un Castello (826) distrutto dal Duca di Napoli, Bono.Subì devastazioni da parte dei Saraceni (circa 881) e divenne, in seguito, contea normanna (nel frattempo il Castello era stato ricostruito, come indicano alcuni elementi decorativi venuti alla luce nei recenti interventi di ristrutturazione e restauro). Conti in tale epoca furono Goffredo, Ruggiero, Roberto e Riccardo di Medania.Figlia di Roberto fu la regina Sibilia, acerrana, che andò sposa a Tancredi, re di Napoli.In epoca sveva, feudatario fu, tra gli altri, Tommaso D'Aquino, legato all'imperatore Federico Il.Poiché lungo sarebbe l'elenco dei signori che nella fase angioina ed aragonese ressero la città, si ricordano in particolare i conti delle famiglie Origlia e del Balzo Orsini e il conte Federico d'Aragona, futuro re delle due Sicilie.In seguito vi si trovano i De Cardenas, dal 1496 in avanti. Il primo della famiglia fu Ferdinando, mentre Maria Giuseppe fu l'ultima, infelice, contessa, morta nel 1812, due anni dopo che venne abolita ad Acerra la feudalità.   Era già il periodo in cui, anche grazie alle bonifiche che vi erano state condotte fin dagli inizi del '600, la città si andava espandendo.

 

Aversa

(estrato da sito internet)

 

Fu donata in feudo nel 1030 dal conte di Napoli Sergio IV al normanno Rainulfo Drengot che, costruì il castello e le mura di cinta, ne fece la prima contea autonoma realizzata in Italia dai Normanni e nel 1038 ebbe l'investitura imperiale da Corrado II. Sede vescovile nel 1050, vi furono istituite scuole grammaticali. Attivo centro culturale, incrementò i propri commerci soprattutto dopo che i conti di Aversa divennero anche principi di Capua nel 1058. Passata nel secolo XIV sotto il dominio angioino, vi fu costruito un castello.Qui, nel 1345, fu strangolato Andrea d'Ungheria; tre anni dopo il fratello Ludovico vi fece trucidare tutti i sospetti assassini. Coinvolta nelle lotte per la conquista del trono di Napoli, cadde nelle mani di Alfonso I d'Aragona nel 1440 e nel 1529 fu assediata dagli Spagnoli che ottennero la capitolazione del marchese di Saluzzo, comandante delle truppe francesi. Ad Aversa nacquero i musicisti Niccolò Jommelli e Domenico Cimarosa. Nell'abitato sono conservati pregevoli monumenti d'arte e di storia, in buona parte risalenti al periodo normanno. Fra le opere più significative sono il duomo, eretto nel secolo XI, ricostruito nel 1145 e parzialmente rifatto nel secolo XVIII, la chiesa trecentesca di S.Maria a Piazza e quella barocca dell'Annunziata.

 Azolino fu il primo vescovo intorno al 1050, come risulta dalla Bolla di Callisto. In origine la Diocesi di Aversa, chiamata all'inizio anche Atellana per l'inglobamento dei Casali appartenenti alle diocesi di Atella e di Literno scomparse.

 

Ultimo aggiornamento: 01-06-04